Quando Piero Pasini quest’estate accettò l’offerta di allenare la Marr Rimini, dopo uno scudetto e una Coppa Campioni femminile con lo Zolu di Vicenza, furono in molti a commentare che era il Vasco Rossi della pallacanestro, quello di “voglio una vita spericolata” vista l’inconsistenza della formazione romagnola. Ma la realtà è un’altra: Piero Pasini, romagnolo puro sangue (il piacere per la vita glielo si legge in viso) è uno di quegli uomini che ha vissuto sulla propria pelle quelle impossibili partite a scacchi con la morte. Ha perso la moglie per leucemia ed ha una bambina da accudire.
«Avevo avuto altre offerte - dice Pasini - ma volevo vivere meglio il rapporto con mia figlia, volevo essere padre, come ora cerco di esserlo, e non quello che per due ore la settimana, il lunedì, vizia il proprio figlio. Questa possibilità me l’ha data Rimini».
«Ma questo Rimini che da anni vende e non compra, lasciava perplessi».
«Devo dire che il discorso con i dirigenti riminesi è stato molto chiaro: m’hanno detto che dovevano vendere Terenzi perché dovevano ripianare un buco di 350 milioni e mi hanno anche illustrato quelle che potevano essere le prospettive. M’hanno chiesto di fare i salti mortali ed io ho risposto “va bene”. L’importante in queste cose è di essere chiari, e loro lo sono stati».
«Cos’é la società Rimini dopo la morte di Zavatta, il presidente dell’etò dell’oro?»
«È una società senza megalomanie, che vive la propria realtà con i piedi ben saldi per terra».
«A questo punto del campionato, con sette vittorie di fila, a Rimini si parla di A-1. Come risponde la dirigenza?»
«Ho presentato una relazione sulle qualità e peculiarità della squadra. Ora spetterà loro prendere delle decisioni in caso di promozione».
«Cosa manca a questa Marr per un campionato di A-1?»
«Certamente un buon lungo italiano».
«Se entrasse in Società un uomo della potenza economica di Piero Amati, il Rimini diventerebbe grande?»
«Non credo. A Rimini mancano le infrastrutture di una grande società e solo ora si sta cercando di aprire questa porta. Comprare un giocatore della Nazionale non risolve i problemi alla radice».
«Il segreto di questo Rimini?»
«Si allenano tutti divertendosi. È un gruppo molto omogeneo e tutti sono amici. Prima della partita con le Cantine Riunite, tanto per fare un esempio, abbiamo fatto anche aerobic-dance»
«Hai giocatori provenienti dalla B (Cecchini e Ottaviani) scarti della Berloni (Wansley e Benatti) e Sims un americano che ti ha lasciato molto perplesso agli inizi. La Marr è in pista per l’A-1, qualcuno ha sbagliato tutto nelle valutazioni, o Pasini è un genio?»
«Per usare un paragone difficile, sono per il concetto della maieutica socratica: sono cioé una levatrice, aiuto a nascere, ma se il bimbo è bello non ho particolari meriti. Dico solo questo».
«È difficile fare l’allenatore?»
«In Italia molto, perché tutti i giorni si ha a che fare con dieci realtà diverse e con ognuno devi essere confessore, madre e soprattutto aver sempre il carisma del padre. Sono del parere che gli allenatori italiani sono i migliori d’Europa e non capisco come dei miei colleghi abbiano potuto caldeggiare allenatori stranieri».
«Cosa vale di più: una Coppa dei Campioni con la Zolu Vicenza o sette vittorie con il Rimini?»
«Sette vittorie con il Rimini, anche se sotto il profilo professionale l’aver allenato una formazione come la Zolu, mi ha dato modo di effettuare esperimenti tecnici altrimenti impossibili».
«Cos’é la notorietà?»
«Un sacco di cenere, cosa negativa, ma soprattutto l’arrivare il martedì mattina agli allenamenti con il sorriso sulle labbra».
«Il “maestro”?»
«De Sisti».
«La formazione, la coscienza di poter diventare...»
«Vigevano, che poi è Milano. Si viveva la pallacanestro nella totalità più completa, tutti insieme (allenatori...), appassionatamente».
Maurizio Gennari, 26 gennaio 1984